Protesi: nuova epoca d’oro
L’intervista a Carlo Poggio
Carla De Meo
Lo sviluppo della tecnologia digitale sta trasformando rapidamente procedure e materiali nell’ambito della protesi. Dental Cadmos ne ha parlato sul numero di Maggio con Carlo Poggio, presidente eletto AIOP (ricoprirà la carica di presidente nel biennio 2019-2020), e autore di una revisione Cochrane sulla protesi metal free.
Quali sono oggi ruolo e mission dell’Accademia Italiana di Odontoiatria Protesica?
AIOP è l’unica società scientifica italiana in cui convivono componente clinica e odontotecnica, perché quasi quarant’anni fa nacque proprio con questa impronta. Ha quasi 1500 soci ordinari, poco più di 300 sono odontotecnici e 85 sono soci attivi, in gran parte clinici.
Per storie personali, qualità, competenze nell’attività formativa, i soci attivi rappresentano tutta l’eccellenza della protesi italiana. Ci sono professionisti che hanno fatto letteralmente la storia del settore nel nostro paese.
Negli ultimi anni l’Accademia sta vivendo una profonda trasformazione generazionale, con un rinnovamento nelle sue attività. Ad aprile 2019 festeggeremo a Riccione i nostri primi 40 anni con un importante evento e un grande party che vorremmo rimanesse memorabile per i prossimi 40 anni.
Una trasformazione facilitata dall’eccezionale sviluppo della tecnologia digitale…
È vero. A mio parere non è esagerato affermare che stiamo vivendo una nuova epoca d’oro della protesi. La nostra specialità è immersa in una trasformazione estremamente innovativa e stimolante. Per molti decenni abbiamo usato le stesse tecniche consolidate, mentre da quindici anni assistiamo a evoluzioni impressionanti nelle procedure, nei materiali, nelle tecnologie.
La tecnologia digitale sta trasformando tutti i flussi di lavoro e le innovazioni accelerano sempre più. La nostra ambizione per il prossimo biennio è continuare sulla strada dei fondatori, che ci ha condotto a livelli d’indiscussa eccellenza, ma in un nuovo contesto di protesi.
Di fronte a cambiamenti così repentini come riesce a sintonizzarsi la formazione accademica?
Purtroppo per ragioni di aggiornamento tecnologico nelle scuole odontotecniche e nei corsi di laurea di odontoiatria vengono oggi trasmesse tecnologie che, tendenzialmente, saranno rapidamente superate.
È un problema globale, presente a livello internazionale. Ovvio, esistono anche isole felici, ma la formazione di base è in questa fase spesso in ritardo sugli sviluppi più avanzati della professione.
AIOP come si posiziona rispetto a questo “scollamento”?
L’Accademia ha una storia particolare rispetto al mondo della formazione universitaria: abbiamo molti formatori eccellenti ma purtroppo, a differenza di altre società scientifiche, abbiamo una rappresentanza limitata nel mondo accademico universitario. La ragione è banalmente storica ed è presto spiegata.
In Italia la realtà protesica all’interno dell’università è stata in passato spesso una disciplina “cenerentola”. Nelle cliniche ospedaliere sedi di attività universitaria, la protesi fissa è stata una disciplina praticata in modo ridotto per oggettive difficoltà organizzative; il più delle volte l’unico reale servizio erogato è stato quello della protesi mobile, una soluzione più “sociale”. Pertanto il mondo della protesi fissa in Italia si è prevalentemente sviluppato nell’ambito dell’attività libero professionale.
Negli ultimi anni come Accademia stiamo collaborando molto bene con alcune realtà universitarie dove, con impressionanti sforzi, si sono sviluppate attività di clinica e di ricerca a livelli assolutamente elevati e riconosciuti nel mondo. In particolare, nel 2017 è stato attivato dal professor Marco Ferrari all’ateneo di Siena un Master internazionale in protesi fissa che ha tutti i requisiti di una specializzazione triennale in protesi secondo le specifiche riconosciute dall’European Prosthodontic Association.
All’interno del Master, l’università ha voluto una collaborazione proprio con AIOP tanto che oggi il corso è co-gestito dall’università di Siena e dalla nostra Accademia. Il nostro sforzo, quindi, è lavorare in sinergia con il mondo universitario, sviluppando nuove e più concrete collaborazioni.
Un altro obiettivo che ci siamo dati è sviluppare progetti di programmi di formazione applicabili alle scuole odontotecniche, perché il ritardo sulla formazione digitale rappresenta un problema anche nelle scuole superiori.
Lei ha competenza, a livello specialistico, sulle tre grandi aree. Come vede in prospettiva lo sviluppo della professione?
La tecnologia digitale porterà sicuramente a ulteriori sviluppi che saranno eccezionali, ma tutto avverrà dentro una nuova visione interdisciplinare.
Per fare un esempio, oggi in un’unica acquisizione dati radiografica individuiamo quello che in passato l’ortodontista ricercava nella teleradiografia, l’implantologo nella TAC, il paradontologo nello status radiografico.
L’approccio agli esami diagnostici è radicalmente mutato: un unico esame, tante informazioni. E questo richiede un nuovo linguaggio diagnostico e un nuovo modo di analizzare. Ecco, in questa prospettiva credo saremo sempre più portati a svolgere un’attività veramente interdisciplinare.
La tecnologia favorirà una gestione interdisciplinare dei pazienti: ci sarà una maggiore condivisione di informazioni tra specialisti diversi. Anche i cambiamenti del mercato, con la nascita di strutture più grandi e organizzate, avranno ricadute in questo senso con lo sviluppo di figure più specialistiche.
In futuro è probabile che sempre più dentisti si occuperanno in modo quasi esclusivo di una materia perché opereranno all’interno di strutture dove le competenze saranno più mirate. Poi è naturale che ciascuna specializzazione viva le sue fasi storiche.
In protesi assistiamo, come abbiamo visto, allo sviluppo dei materiali e della digitalizzazione dei processi; in parodontologia sono in atto interazioni con la medicina generale e con valutazioni più individuali legate alla genetica; in ortodonzia l’avvento della gestione tridimensionale con sistemi di acquisizione radiografici offre una visione molto più ampia sulla diagnosi e sulle conseguenze del trattamento.
Approfondiamo la passione per la ricerca: come è nata?
Nel ’92, quando mi sono laureato, i corsi di laurea di odontoiatria non erano ancora molto sviluppati nella parte di ricerca clinica (comprensibilmente, essendo un corso di laurea ancora molto giovane). La qualità della ricerca in ambito clinico non era eccezionale, rari erano per esempio i contributi in ambito internazionale rispetto a oggi.
Incontrai allora il professor Ferrario dell’Istituto di anatomia. Fu allora che mi innamorai della ricerca: trovavo tutto molto più stimolante rispetto alle materie cliniche. Così mi buttai anima e corpo in un dottorato di ricerca di quattro anni con frequenza quotidiana di sei ore.
Studiavo tecniche di ricerca di base sulla crescita facciale, sull’attività dei muscoli… Terminati i quattro anni, la mia attività clinica era comunque iniziata. Oggi posso dire che facevo il “dentista part-time” perché per la maggior parte del tempo sognavo di fare lo scienziato. Così negli anni ho sempre tenuto alta l’attenzione sul mondo della ricerca.
Percorso che l’ha portata, recentemente, a pubblicare una revisione Cochrane: come è nata questa nuova sfida?
Negli anni ho avuto la fortuna di incontrare professionisti esperti di riferimento mondiale come Marco Esposito, per la ricerca implantare, e come Daniele Manfredini per le disfunzioni temporomandibolari.
Questi incontri sono stati stimolanti sotto il profilo umano e dell’attenzione continua, affianco alla clinica, al mondo della ricerca. Insieme a loro sono nate delle collaborazioni e con Marco Esposito, in particolare, l’ambizione di coniugare l’ambito della protesi con un approccio evidence based, quindi con una revisione sistematica. Così è nata la revisione Cochrane sulla protesi metal free.
Su che cosa in particolare vi siete concentrati?
Abbiamo messo insieme lo sviluppo in atto in protesi relativamente ai materiali privi di metallo e le migliori evidenze scientifiche disponibili. Lo abbiamo fatto rispettando un approccio Cochrane, ovvero un metodo estremamente rigoroso e rigido, con tutti i limiti ma anche con tutti i vantaggi del caso.
Il risultato è che ancora una volta assistiamo a una vistosa discrepanza tra dove sta andando il mercato odontoiatrico in termini di produzione di dispositivi e il livello della ricerca scientifica. C’è un gap notevole tra un mercato che è sempre più fatto di tecnologia metal free e di produzione digitale e un mondo della ricerca che, in questo ambito, è carente dei dati derivanti da pubblicazioni qualitativamente elevate.
Utilizzando metodi rigorosi, quali quelli indicati dai criteri Cochrane, alla fine abbiamo trovato, dopo un lungo lavoro, pochi dati rilevanti. Abbiamo fatto fatica a rintracciare studi di qualità che producono risultati significativi. E quando li abbiamo trovati, spesso, al loro interno hanno evidenziato problemi legati alla metodologia oppure ai risultati che arrivavano a occultare i fallimenti.
Tutto questo ci porta ad affermare che è necessario portare avanti un’attività di ricerca più qualitativamente significativa. Ma sappiamo che stiamo parlando di ricerche estremamente complesse e costose: fare dei trial randomizzati in ambito protesico richiede tempi infiniti e fondi importanti.
Però in altri ambiti, come l’implantologia e la parodontologia, gli approcci di metodologia clinica più avanzata sono in uso ormai da anni. La speranza è che anche la protesi si faccia in questo senso più attiva, elevando il livello qualitativo.
Probabilmente la difficoltà per la protesi va anche ricondotta al fatto che, per le sue tante variabili manuali e tecniche, è poco riconducibile a un approccio così rigoroso. C’è un problema di sintesi?
In effetti uno dei problemi è che il trattamento protesico spesso è difficilmente standardizzabile. Ma è anche vero che alcuni aspetti come la corona singola o il ponte di tre elementi possono essere standardizzati.
L’implantologia produce moltissimi studi clinici randomizzati che riguardano soprattutto la parte chirurgica del trattamento. Ma se un impianto, alla fine, è il sostegno di un elemento protesico, produrre dati anche sulla parte protesica dovrebbe essere semplice o comunque equivalente a quanto già si fa nell’ambito implantare.
Per riassumere, direi che esistono differenti aspetti estetici, biologici, meccanici ma un miglioramento è auspicabile e anche possibile.
Forse c’è da affrontare anche una questione culturale. Fino a qui abbiamo parlato di chi la ricerca la produce, poi c’è chi la ricerca la “consuma”: qual è la risposta dei colleghi a questo tipo di approccio?
Il problema è sicuramente su più livelli: c’è bisogno di fare progressi anche su chi la ricerca la “consuma”. C’è da dire che tendenzialmente, in ambito protesico, il clinico di base è soggetto alla comunicazione aziendale degli opinion leader.
Un ruolo importante e delicato in un settore dove abbiamo visto c’è poca documentazione rigorosa. Se disponessimo di un maggior numero di evidenze scientifiche si lascerebbe meno spazio alla soggettività, alla vendita del prodotto in un campo qual è il nostro che, storicamente, è sempre stato frequentato da expert opinion, guru molto forti e strutturati.
Ci ha raccontato com’è nata e cresciuta la sua passione per la ricerca fin dall’università. Ma per lei si può parlare di sliding doors ancora prima, all’inizio degli studi, perché avrebbe voluto fare ingegneria. È rimasto in lei qualcosa oggi del potenziale ingegnere degli inizi?
Mi fa piacere questa domanda personale… All’epoca mi piaceva l’idea di ingegneria perché ero affascinato dalla pura ed estrema razionalità. Devo ammettere che andando avanti negli anni attribuisco meno importanza alla razionalità e ho imparato quanto contino nella vita gli aspetti emozionali, relazionali e intuitivi.
Trovo oggi più stimolante il mondo emozionale rispetto alla sola razionalità. Quindi, per rispondere alla sua domanda: no, quella dell’ingegnere non è un’idealità che oggi prenderei ancora in considerazione.